agosto 06, 2011

Quando anche guardare una tazza mi fa venire un po' d'ansia.

Ho una serie di precisi ed esatti ricordi per quanto riguarda la mia breve carriera di tifosa calcistica, riassumibili tutti in "Mio padre è un tifoso".
Ricordo bene che ero piccola, andavo all'asilo, e babbo diceva sempre di essere tartassato (è dialetto o esiste?) perché era l'unico in casa a tifare Juventus, dal momento che sebbene mamma fosse milanista e nonno interista, e Milan e Inter non siano proprio best friends forever, erano fortemente compatti e coalizzati nell'affermare che la Juve aveva una splendida squadra. Sì, di arbitri.
Ricordo con altrettanta precisione che nel mio cervello ancora piuttosto ingenuo, iniziai a pensare che se anch'io avessi affermato di tifare bianconero, mi sarei avvicinata un po' (un po', davvero, mi bastava pochissimo) a lui che preferiva sempre passare il suo tempo in altro modo, qualunque modo, pur di non passarlo con me. Decisi che, da quel giorno (mi pare fosse inverno, perché l'illuminazione m'era venuta facendo i compiti), avrei tifato Juventus.
Iniziai a sedermi accanto a lui durante le partite in televisione, a difenderlo durante i dibattiti calcistici -con crescente fervore, tra l'altro, perché la pratica migliorava le mie prestazioni-, a esultare quando lui esultava, a sbuffare quando lui sbuffava, a imprecare quando lui imprecava, e così via.
Cominciò a sentirsi libero di comprare le posate della Juve, la sciarpa della Juve, la tazza della Juve ed un sacco di altri gadget di suddetta squadra che adesso riempiono casa, e ad ogni nuovo acquisto ricordo il suo accenno di sorriso ed i miei denti, che non c'erano tutti, rivolti a lui. Mi tuffavo tra le sue braccia, entusiasta non per i regali (anche perché, diciamocelo, io neanche distinguevo i giocatori juventini dagli avversari, su) ma perché lui m'aveva pensato. Lui. A me.
Quanto ero felice, mentre si faceva stringere (evento raro).
Prima, tornando a casa, sono andata al mobile a prendere un bicchiere per bere un po' d'acqua.
Davanti, una mega tazza con lo stemma della Juventus, che usa lui per fare colazione ed io non tocco da anni. Automaticamente ho portato lo sguardo al letto singolo dove dorme babbo, a pancia in giù col braccio sinistro sotto il cuscino e la bocca aperta, un po' bambino mentre riposa, quasi innocente -chissà cosa sogni, pa'-, e mi sono chiesta se anche a lui, un pochino, si stringe lo stomaco a pensare a tutti questi anni passati a suon di saluti mancati, abbracci negati, pagelle ignorate, risposte perse nell'aria, litigi frequenti e sguardi freddi, quando la mattina si prepara il caffè e ci zuppa i biscotti.

Sta' tranquillo, sai? Io sto iniziando a rinfacciarti tutto, ma altro non è che l'ennesimo tentativo probabilmente inutile di farti capire che esisto anche io, che dei sentimenti li ho anche io, che 'scusa' ogni tanto me lo potresti anche chiedere, che in fondo per tutte le sedie lanciate ed i tavoli rotti ti ho perdonato all'istante, che quando ti parlo potresti anche rispondermi, che non è poi importante se mamma non te ne fa più passare neanche una perché io ti sto ancora aspettando.
Fai così: quando mi guardi, immagina che io sia ancora quella bimba un po' tonda con i capelli neri, la pelle bianca e le guance rosse che veniva ad abbracciarti le gambe quando tornavi a casa dal lavoro; però, magari, questa volta, almeno ogni tanto, cerca di non scuotere la gamba e borbottare che sei stanco. Non costa niente fare almeno finta d'ascoltare la propria figlia; però, magari, questa volta, almeno ogni tanto, non chiedere a mamma come sto, chiedilo a me, mica ti mangio, te lo prometto, lo sai (?) che non mi piace la carne; però, questa volta, almeno ogni tanto, te lo chiedo per favore, davvero, ti scongiuro, fammi sentire che un pochino, giusto un po', mi vuoi bene e che non mi consideri solo una coinquilina un po' fastidiosa da considerare il meno possibile.
Buonanotte, dormi bene. Ci vediamo domani.
Ti voglio bene, anche se non te lo dico più da tanto.

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