febbraio 25, 2017

"I've got no one to hold me, 'cause I turn them all away"

Scrivevo su questo blog ogni giorno.
Lo usavo per sfogarmi, per raccontare delle mie giornate, per tenere traccia dei miei pensieri e delle mie emozioni legate ad avvenimenti anche di piccolo conto e, pur tenendolo nascosto ai miei conoscenti per tutelare l'intimità dei pensieri che vi depositavo, sostenevo la sua utilità con forza, cercando di far capire più o meno esplicitamente quanto scrivere mi sia servito a mantenere una sorta di contatto con la mia sanità mentale in tutti questi anni. Mettere le parole nero su bianco mi ha sempre aiutata a dare forma ai miei pensieri, e raccoglierli in questa sorta di diario virtuale è stato un beneficio che non credo di saper descrivere.
Le cose poi, in un modo o nell'altro, sono peggiorate.
Il dolore a volte è subdolo, e nel momento stesso in cui io ho avuto l'impressione di aver imparato a gestirlo è riuscito ad insinuarsi un po' più in profondità, in angoli in cui non credevo avrebbe mai trovato posto, e me ne sono resa conto solo quando ormai mi aveva paralizzata e non riuscivo più neanche ad impugnare l'unica arma che sentivo realmente di riuscire a maneggiare: la scrittura.
E così ho smesso di scrivere. Prima ho abbandonato le storie che mi giravano in testa - che per un periodo hanno persino smesso di venirmi in mente, lasciando in un certo senso una sorta un vuoto tra i miei pensieri - e poi ho gradualmente smesso di trascrivere ciò che mi girava per la testa qui. I miei messaggi sono diventati sempre più brevi, il mio lessico sempre meno elaborato, la punteggiatura è sparita, ho iniziato persino ad usare le emoji con una frequenza che, se fossi io il destinatario dei miei messaggi, mi disturberebbe parecchio.
Vorrei dire che da questo sono dipese un sacco di cose - ed è vero, per inciso - ma il punto è probabilmente che la mia paralisi verbale (?) era il sintomo di qualcos'altro che io ho riconosciuto quasi subito, ma di cui non ho reso partecipe nessuno, forse perché volevo accorgermi, da un momento all'altro, di avere torto. Non sapevo come fare, non sapevo a chi dirlo, non sapevo come affrontare la cosa. Mi sono semplicemente arresa a lasciare che le parole restassero tutte chiuse nella mia testa e si tramutassero in una costante pressione sul petto, frequenti mal di testa e fastidiosi nausee. Ho lasciato che i miei atteggiamenti e le mie mancate spiegazioni facessero uscire quasi tutti dalla mia vita, ho lasciato che i miei interessi si trasformassero in obblighi, ho lasciato che le persone continuassero ad avere un'idea di me e del mio carattere che in realtà non corrisponde più al vero.
All'inizio, per un po', ho continuato ad andare.
Non sono nuova a questi sintomi, ne soffro da prima di quanto mi piacerebbe ammettere, e quando si sono intensificati di nuovo avevo ancora degli assi nelle maniche. Mi sono buttata sullo studio, riempiendo la mia testa di concetti su concetti nella speranza che occupassero abbastanza spazio da costringermi a cestinare i pensieri che mi facevano stare male. Era il secondo quadrimestre della quarta superiore. Passavo tutti i pomeriggi sui libri, il mio rendimento scolastico è salito alle stelle, e se sono sempre stata un'ottima studentessa sono riuscita chissà come a trasformarmi in una sorta di Wikipedia ambulante che prendeva il massimo dei voti dando l'impressione di non doversi neanche sforzare. Ho passato l'estate a documentarmi su cose di cui forse m'importava poco, ho fatto amicizia con persone che normalmente non avrei frequentato (brave persone, ma quasi fastidiosamente superficiali) solo perché mi trascinavano fuori di casa quasi ogni giorno, e ricominciata la quinta ho dato inizio all'anno più proficuo della mia carriera da studentessa. Mi sono resa conto a qualche mese dalla maturità che qualcosa non tornava, che forse avevo sbagliato qualcosa, e che le mie ansie più personali non erano state sconfitte ma in qualche modo sostituite da questa sorta di mostro che era l'esame, ed ho avuto un crollo. Non ho né mangiato né dormito per circa un mese e mezzo, poi la maturità è passata, i risultati sono stati più che soddisfacenti, ma io per settimane continuavo a svegliarmi di soprassalto ripetendo Hegel o il processo di formazione delle rocce sedimentarie a voce alta (episodi che, quasi tre anni dopo, mia sorella ancora definisce inquietanti). Non avevo niente da fare, il liceo era finito, e nonostante io sapessi che non era ciò che volevo fare, nonostante io avessi affermato per mesi la necessità di stare ferma per un po' alla fine delle superiori - perché non stavo bene, perché non mi conoscevo più, perché dovevo capire chi io fossi al di fuori di un'aula scolastica, perché avevo bisogno di tempo per ritrovare un equilibrio e ricostruirmi degli hobby, perché sapevo che se non riuscivo più a gustarmi un buon libro dopo vent'anni vissuti da topo da biblioteca voleva dire che qualcosa non andava, perché non riuscivo più a dormire, perché anche mangiare era diventato un peso - ho ceduto alle pressioni esterne, ed un po' anche al bisogno di tenermi occupata e non pensare a tutto questo, e mi sono buttata sul test di ammissione chiudendomi in me stessa - ma la scuola era finita, non ero obbligata a vedere le persone, quindi ho passato due mesi chiusa in casa, declinando ogni invito ad uscire, e perdendo così quasi tutti gli amici che avevo, perché è così che faccio io, e per quanto io lo sappia e non mi sopporti, sembra che io non possa farne a meno.
Ho messo da parte mesi di tentativi di far capire che non era per la paura del test che sostenevo di non voler più fare psicologia, ma perché mi ero resa conto che non era ciò che mi interessava, che non mi vedevo a fare la psicologa, che volevo studiare lingue o scienze della comunicazione perché era ciò che mi piaceva di più, e non so se io l'abbia fatto perché nonostante mi piaccia milantare il contrario in realtà del giudizio degli altri mi importa parecchio e tutti quegli sguardi storti e domande sarcastiche da parte dei miei familiari mi stavano ferendo più di quanto avrei potuto ancora sostenere, o se io abbia semplicemente alzato bandiera bianca perché ero stanca di combattere, ancora non l'ho capito.
Fatto sta che alla fine ho sostenuto il test d'ammissione (che tra l'altro ho pure fatto con il minimo impegno di cui io fossi capace, nella speranza che fosse il risultato a decidere per me) e l'ho passato (evidentemente avevo sopravvalutato i miei avversari), l'università è iniziata e dopo due mesi in cui non sapevo cosa fare delle mie giornate mi è sembrato di aver ritrovato finalmente una qualche sorta di equilibrio. La routine mi è sempre piaciuta, l'ho sempre trovata rassicurante, quindi le lezioni erano quasi un sollievo. Tra l'altro non è che la psicologia non mi piaccia, anzi, mi ha sempre interessata ed affascinata, quindi le lezioni mi risultavano parecchio piacevoli.
Nel frattempo la situazione a casa è peggiorata, e questo non mi ha aiutata ad avere la lucidità necessaria per mettere delle buone basi per questa nuova fase della mia vita: tornavo a casa e la serenità mi scivolava via di dosso, lasciandomi priva di ogni voglia ed energia. Alla fine del primo semestre ero già indietro, il che non sarebbe stato un dramma se io fossi stata nelle condizioni giuste per accettare i miei limiti e trovare una soluzione, elaborare un piano. Invece ogni volta che aprivo un libro mi veniva da vomitare, stavo male, ho iniziato ad evitare gli esami che prevedevano una prova orale, e mi sono ritrovata sempre più indietro, con sempre più ansia, ed ho visto cadere di fronte ai miei occhi l'unico castello che era sopravvissuto agli anni precedenti; e se non ero più una buona studentessa, io non avevo più certezze su di me.
Non scrivevo più, non leggevo più, avevo smesso d'informarmi, non sentivo più la necessità di fare l'avvocato delle cause perse, non rispondevo più a commenti omofobi/sessisti/razzisti o quel che è, non raccontavo più delle mie giornate a nessuno, gli argomenti trattati a lezione non m'importavano più, avevo smesso di leggere articoli scientifici sulle questioni più disparate, non ho neanche fatto lo sforzo di proporre a qualcuno di andare a vedere le Perseidi ad agosto.
Non m'importava più di niente.
Un giorno, tornata da lezione, più o meno un anno / un anno e mezzo fa, ho raccontato a mia madre che ci avevano fatto vedere un test che si usa per diagnosticare la depressione.
"Nel dettaglio, eh, con lo scoring e tutto".
"Ah".
"L'ho fatto, per curiosità".
"E?".
"E il manuale dice depressione maggiore".
Gliel'ho detto con indifferenza. Non suonava come una richiesta d'aiuto, ma come una comunicazione, come se le stessi dicendo che avevo già i soldi per il pranzo, quindi non ci sono rimasta troppo male quando, nonostante la preoccupazione che le ho letto sul viso sul momento, dal giorno dopo sembrava essersene dimenticata per sempre. So che non lo fa perché non le interessi, ma perché l'esperienza ci ha insegnato che per la terapia ci vogliono soldi che non abbiamo, e a volte quando mi propone di fare cose che di base potrebbero interessare solo a me, o quando torna dal supermercato con qualcosa che piace solo a me, mi piace convincermi che sia perché cerca di fare quel che può dopo aver ripensato a quella conversazione, quindi va bene così.
Io nel frattempo ho pensato a un sacco di cose che potrei fare per stare meglio. Il punto è che non ho voglia di iniziarne neanche una, per quanto vorrei. Quindi ho messo via il tappetino che ho comprato per fare yoga in casa, aiutandomi con i video gratuiti su internet, ho abbandonato il proposito di uscire ogni giorno per una passeggiata, visto che in realtà il pensiero di uscire di casa mi agita e anche solo cercare i vestiti nell'armadio mi pare una fatica enorme, e così via.
In compenso, ho provato a ricominciare a scrivere - e miracolosamente mi sta riuscendo, da qualche mese a questa parte - ma non è più come prima. Non è una cosa che mi rilassa, che mi fa stare bene; è solo un'altra cosa da fare. Di cui non m'importa.
Non m'importa più di niente da quasi quattro anni.
Cinque giorni fa sono andata a fare una visita. Sono passati più di tre anni da quando ho iniziato a notare che qualcosa di fisico non andava - a prescindere da tutto ciò che riguarda il mio equilibrio psicologico - ma com'è tipico della mia persona ho fatto finta di niente, facendo magari qualche commento occasionale per vedere se ero semplicemente paranoica o se effettivamente i segnali erano visibili anche ad osservatori esterni. Circa una decina di giorni fa mia mamma mi ha trascinata dal dottore per risolvere questa questione dell'insonnia (lei avrebbe voluto che mi prescrivesse qualcosa per dormire, ed io non ho avuto la forza di far presente né a lei né al medico ché l'insonnia è un sintomo, e che visto il quadro generale avrei bisogno di un altro tipo di cure, quindi per questa faccenda aspetteremo la visita neurologica a maggio) e già che c'ero ho fatto presente i cambiamenti che avevo notato nel mio corpo. Sono uscita dall'ambulatorio con due impegnative in mano, anzi che una.
Sono andata alla visita con due ore di sonno alle spalle, a digiuno, e sono entrata nell'ambulatorio con tre ore di ritardo rispetto al mio appuntamento; ne sono uscita con sette impegnative in mano, la certezza di avere dei noduli alla tiroide e la concretissima possibilità di un ovaio policistico o, eventualmente, una disfunzione surrenale.
I miei noduli sono stati definiti "non preoccupanti", solo da tenere sotto controllo, e le altre due cose sono state buttate lì come se fosse niente, nessuno ha fatto domande, il medico non si è premurato di elaborare, vada a prendere l'appuntamento per le analisi con l'infermiera, grazie e arrivederci.
Mia mamma ha sentito "noduli" e non ci ha capito più niente: lei e nonno la tiroide non ce l'hanno più, mia mamma non ci ha potute neanche vedere per un mese per la radioterapia, e posso solo immaginare cosa le sia passato per la testa quando ha sentito che ho ereditato questa cosa, ma quando mi ha detto che non è un problema se l'appuntamento per l'ecoaddome me l'hanno dato quasi a giugno, perché "la cosa più importante sono gli esami della tiroide" mi è venuto il dubbio che forse a tutta la parte dopo "noduli" non ha prestato attenzione, o più probabilmente non l'ha capita. Devo ancora trovare la voglia di approfondire.
Quando per tutto il pomeriggio non ho provato niente - e con "niente" intendo assolutamente niente, zero assoluto, non me n'è fregato un accidente neanche per un secondo - ho pensato che fosse per la stanchezza: due ore di sonno, sono stata sette ore in piedi senza aver neanche bevuto un caffè (io che appena sveglia ne bevo una moka da sei come minimo, sennò non funziono), probabilmente non riuscivo a elaborare semplicemente perché era già tanta grazia se stavo in piedi. Ne ho approfittato per fare qualche ricerca in rete (sì, lo so che non si cercano i propri sintomi su Google, nove volte su dieci si scopre di avere una rara malattia genetica incurabile, ma io non dovevo googlare i sintomi, dovevo solo capire meglio cosa significassero quelle diagnosi a metà, quindi mi è sembrata un'idea ragionevole), assorbire più informazioni possibili senza essere assalita dal panico, ed ha funzionato. Quando la sera sono andata a letto con l'emicrania, attendevo la mia solita pressione al petto che mi avrebbe impedito di addormentarmi, e credevo che finalmente tutte le informazioni sarebbero entrate nel database così da avere un feedback emotivo. E invece niente.
Il giorno dopo avrei voluto studiare, ma non avevo voglia di fare niente. Mi sono alzata, ho bevuto il caffè, ho fumato una sigaretta e mi sono trasferita sul divano, dove sono rimasta fino a sera; ho cenato, e sono andata a letto.
Il giorno successivo è stato lo stesso, così come quello dopo ancora, e fanculo all'esame che avrei dovuto sostenere tra tre giorni, tanto comunque me lo sarei perso perché sono in ospedale per le analisi. Sono quattro giorni che praticamente non rispondo ai messaggi, e l'unica cavolo di prova che ho avuto del fatto che effettivamente il mio cervello ha capito cosa diamine mi è stato detto lunedì mattina è che l'altra sera ho fatto un incubo che preferisco non raccontare in cui stavo malissimo e piangevo, mentre al risveglio mi sono di nuovo ritrovata nell'apatia totale.
Ho i sintomi fisici - ma solo quelli - dell'ansia, procrastino persino la pipì, non sorrido al mio cane, evito di guardare film o serie tv che prevedano un minimo di coinvolgimento emotivo, ho detto "no" alla pizza ed ho sentito di nuovo la necessità di scrivere (qui, tra l'altro), quindi lo so che in realtà  ho metabolizzato e questa situazione mi sta facendo stare male, ma è come se buona parte di me non se ne rendesse conto.
E lo so, lo so che c'è di peggio, so che ho visto, provato e superato cose peggiori di questa, che non mi hanno (mezzo) diagnosticato chissà cosa, che metà delle conseguenze spaventose che ho trovato online sono probabilità remotissime che quasi sicuramente non mi riguarderanno mai e conosco perfettamente l'iter da seguire in caso la situazione dovesse aggravarsi, ma stavolta non ho voglia di affrontare niente. Non voglio razionalizzare, non voglio parlarne per farmi rassicurare, non voglio mettere tutto in prospettiva, non so neanche se questo cavolo di consapevolezza totale che mi aspetto arrivi da un momento all'altro con una crisi di pianto la voglio davvero, non so se voglio rendermi conto e non so se voglio restare in questa specie di limbo.
Sono solo stanca.
Stanca e basta.